“Oh?! Ma ce lo apriamo un ristorantino”?

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Alzi la mano chi è del Sud.
Alzi la mano chi del Sud non si è mai cimentato ai fornelli sentendosi cracco, gordon ramsey o bastianic.
Chi almeno una volta si è visto con il cappello bianco a fungo in testa? Una pensatina ad un corso di cucina, pasticceria, braceria? Gelateria?
Quanti re di aglio, olio e peperoncino? Pizza? Provetti arrostitori?
E chi fra voi non si è esaltato per la frittata miracolosamente fatta volteggiare in aria, per un flambê uscito a culo, per i complimenti ricevuti per il risotto alla marinara?

E soprattutto alzi la mano chi del Sud ha pronunciato almeno una volta in vita sua questa frase “oh, molliamo tutto e apriamoci un ristorante!”. E se non è un ristorante, un agriturismo, una bettola, una locanda, una stanza con 4 tavolini. Un chiosco.
Perché noi gente del Sud abbiamo un rapporto passionale con la vita, con la terra, con il mare, con il sole. E se si amano queste cose non si può non amare il buon cibo, la cucina, l’alchimia nascosta dietro la fusione degli ingredienti, la creazione e la creatività nel comporre un nuovo accostamento, l’ebrezza degli odori sprigionati dai fornelli che da solo soddisfa il palato. Il susseguirsi delle portate, l’abbinamento dei vini, i contorni rinfrescanti, il colpo finale del dolce giusto… Caffè e naturalmente digestivo.
Il dolce e l’amaro, come nella vita.
Il sapido e l’insipido, come le persone.

Quello che ho in mente io è un luogo, un posto che diventi uno stile di vita.

Un luogo dove, naturalmente, si mangi – ma non troppo. Dove si affiancano prodotti a km 0 di contadini fidelizzati che siano in grado di certificare i loro prodotti (non tanto con un’etichetta “bio”, quanto da una trasparenza frutto del loro amore per la terra) e prodotti tipici e unici di tutto il Sud Italia (taralli e mozzarelle pugliesi, granite siciliane, pesto di pistacchio di Bronte, pane guttiau e carasau del nuorese, pecorino spalmabile della Sardegna, limoncello di Sorrento, pane di Matera, salsiccia calabrese, ecc. ecc. ecc.).

Un posto dove il menu sia snello (maggiormente gestibile) e allo stesso tempo molto diversificato (proporre per esempio menù fissi a tema per 30 giorni). Che curi i dettagli e soddisfi diversi palati, dove a colazione puoi mangiare gelato con la brioche (alla catanese), a pranzo le orecchiette alle verdure di campo e vino primitivo, la sera panzerotti non “strafritti”.

Un posto che sia anche un bistrot, un emporio, dove oltre a mangiare puoi comprare prodotti selezionati (da vendere anche tramite e-commerce, puta caso becchi il riccone inglese che vuole farsi la scorta di olio extravergine e bottarga di Cabras – dicono sia meglio del caviale).

Dove il pomeriggio, messi di lato i tavoli, si ospitino corsi, discussioni, dibattiti, laboratori di artigianato e arte del riciclo (maschere di carnevale, giocattoli LOW COST, etc.) legato a doppio filo con il mondo dell’associazionismo, che sia il campo base per escursioni, passeggiate, visite e punto di ritrovo per gruppi sportivi alternativi. Magari con una mini galleria d’arte di fianco con oggetti, storie, mostre fotografiche, libri.

“Oh, allora ce lo apriamo un ristorantino?”

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