I FICHI “MARITATI”.

Che il vino di mio nonno, fatto con il piccolo torchio, per me era eccezionale. Perché dietro c’era la fatica, la raccolta a spalla, c’era la famiglia che si riuniva, c’erano le risate, il fuoco acceso. C’era il rumore ritmico degli ingranaggi del torchio. E il sapore di succo d’uva sulle mani. E i colori del mosto. E l’attesa, la fermentazione, i travasi. E poi arriva S. Martino e ogni mosto diventa vino. La tavolata di domenica e l’assaggio. I sorrisi e gli sguardi compiaciuti per la piccola impresa ancora una volta ben riuscita. E quel vino in quel momento, non avrà il retrogusto di tannino o frutti di bosco, non lascerà il retrogusto di botti di rovere, né sarà brioso, ma sarà il più buono del mondo.

E così la salsa – un rito.
Le casse dei pomodori, i pomodori stesi sui teli, la selezione, il taglio, aggiunta del sale basilico e cipolla, la cottura nei pentoloni. La macchinetta a manovella per passare una, due, tre, quattro volte il pomodoro.
Una catena di montaggio. Chi taglia, chi lava, chi gira, chi porta la birra fresca. E poi l’imbottigliamento. Barattoli vuoti, basilico e il pomodoro rosso vivo che imbratta e riempie. Le bottiglie avvolte nelle carte di vecchi giornali, sistemate sapientemente ad incastro nel calderone per la bollitura finale. Ed è già sera, il rumore della manovella ancora nelle orecchie. Il tempo del fuoco, dell’arrosto, delle tavolate e il primo battesimo della salsa con la pasta. Una delizia!

E i fichi secchi.
Devi trovare le canne, tagliarle, trasportarle, sfogliarle, uniformarle in dimensione, legarle tra loro. E alla fine hai le mani gonfie. E il “cannizzo” non devi farlo seccare troppo se no si sgretola né lasciare alle intemperie altrimenti si inumidisce e marcisce.
E poi i fichi. Devi raccoglierli, selezionarli, spaccarli, farli essiccare, voltarli giornalmente, proteggerli dall’umidità della notte e dai temporali estivi, accoppiarli per dimensione, “maritarli”, e metterci in mezzo il frutto del loro amore. Una mandorla.
Che anche lei ha una sua lunga storia a volerla raccontare.
Aromatizzare il tutto con finocchietto selvatico e scorza di limone. L’ultimo passaggio nel forno per una leggera doratura e ualà la scorta per l’autunno e l’inverno.
E ogni volta che ne pescherai uno addentandolo sentirai il sapore della pazienza, del tempo, della dedizione, dell’affetto. E tornerà alla mente il ricordo lontano del sapore zuccherino, oramai smorzato, del fico fresco. E con lui quello dell’estate, del sole, dei tramonti, della campagna. Che poi il fico secondo me è il frutto più genuino, biologico, naturale e non chimico che ci sia. Un dono senza intermediari della terra, delle strade sterrate e dei muretti a secco.
Continuerai a scioglierlo in bocca, il tempo per una breve contemplazione sul suo colore tutto italiota, dall’interno verso l’esterno: rosso bianco e verde. E per gli ultimi scricchiolii dei sue semi.

È il sapore del fare.
È il sapore delle piccole cose.

2 thoughts on “I FICHI “MARITATI”.

  1. Bellissimo!!!
    Quest’anno dopo oltre 20 anni ho rifatto la salsaaaaaaaaa! E fra un po mangerò pure i fichi secchi! Amo la mia terra!!!!! :))

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